Articolo pubblicato il 03/01/2014 su www.sbilanciamoci.info
Il 48% degli italiani ha fatto ricorso, negli ultimi 5 anni, all’usato e il 41% dichiara di voler incrementare i suoi acquisti nel settore.
I dati del Rapporto 2013 sul riutilizzo
Nel 2013 centinaia di milioni di mobili, oggetti, giocattoli, casalinghi, elettrodomestici, libri e apparati elettronici sono passati di mano in mano con fatturati complessivi a nove zeri e prezzi talmente bassi da competere con le importazioni asiatiche low cost (ma spesso offrendo una qualità maggiore). Si tratta prevalentemente di filiere corte dove ricchezza prodotta e valore aggregato rimangono sul territorio.
In epoca di difficoltà economica non c’è dubbio che il riuso sia un vero toccasana, e non è un caso che l’Unione Europea includa questa pratica tra gli strumenti strategici per il rilancio dell’economia comunitaria. Lo stato dell’arte di questo complesso e variegato settore è descritto nel Rapporto Nazionale sul Riutilizzo 2013, redatto dal Centro di Ricerca Economica e Sociale Occhio del Riciclone e intitolato “L’Usato che Ragiona”. Il titolo del rapporto ha una motivazione precisa: nell’anno che ci siamo lasciati alle spalle, in Italia l’attività di studio, sperimentazione e dimostrazione sul riutilizzo è aumentata esponenzialmente, soprattutto a causa della pressione delle direttive europee che impongono lo sviluppo di piani e proposte. È una cosa positiva: l’innalzamento del livello del dibattito lascia infatti meno spazio alle iniziative che a volte i Comuni, senza preoccuparsi di fornire risultati, mettono in campo con l’unico intento di poter dichiarare di “aver fatto riutilizzo”…e disinnesca il tentativo di alcune amministrazioni regionali e comunali di promuovere, per motivi politici e di immagine, la riproduzione dei loro “modelli” di centro di riuso anche quando questi non riescono a produrre risultati di rilievo.
Uno dei dati chiave emersi dal rapporto è il risultato di riutilizzo medio di un negozio conto terzi dell’usato a conduzione familiare; lo storico delle vendite di 4 anni di un campione di 210 negozi mostra una media di riutilizzo annuale pari a poco più di 100 tonnellate a testa: una quantità simile alla somma di tutti i centri di riuso aperti con denaro pubblico in Centroitalia. Il dato ha un risvolto importante: se uno qualsiasi dei 4000 negozi in conto terzi gestiti in Italia da coppie giovani e meno giovani con l’aiuto dei figli, dei fratelli e dei cognati, riesce a produrre circuiti sociali territoriali in grado di generare molto più riutilizzo che un centro di riuso finanziato e promosso con grande pompa da un ente locale, perchè non chiedere agli enti locali di concentrarsi, piuttosto, nel favorire il consolidamento e la proliferazione di questa piccola economia (che, per paradosso, si trova proporzionalmente a dover sostenere più oneri di chi commercia il nuovo)?
Occhio del Riciclone ha proposto che tutte le iniziative pubbliche di riutilizzo che non possono mostrare performance di riutilizzo maggiori alla media di un negozio privato vengano sospese e che il denaro risparmiato venga usato per favorire le attività economiche familiari realmente in grado di produrre risultati (non solo ambientali ma anche in termini di ricchezza, posti di lavoro e sviluppo locale). Questo non significa che non ci sia bisogno di sviluppare Centri di Riuso in ogni Comune: al contrario! Però prima di pensare a un centro di riuso è opportuno verificare che esistano le condizioni locali per adottare obiettivi e schemi di funzionamento seri; se le condizioni ancora non esistono meglio lavorare per crearle e nel frattempo scommettere su altro. Avviare Centri di Riuso virtuosi è possibile: la Cooperativa Insieme di Vicenza, grazie a un modello di riuso integrato nella gestione dei rifiuti, sta riutilizzando ogni anno ben 400 tonnellate di beni (esclusi gli indumenti) e, in seguito all’adozione di un nuovo schema di magazzino e inventario e al coinvolgimento degli operatori dell’usato, sta puntando a raddoppiare in breve tempo. Ma il potenziale di replicabilità dei modelli di oggettivo successo è drasticamente indebolito dall’avversità di molti Comuni e aziende di igiene urbana di fronte a qualsiasi ipotesi di integrare il riutilizzo nei propri schemi di raccolta (integrare è sicuramente piú impegnativo che improvvisare azioni ludiche parallele e senza nessun contatto con il sistema). Va comunque preso atto che l’associazione di categoria delle aziende di igiene urbana, Federambiente, ha avviato assieme agli operatori dell’usato italiani una sperimentazione nazionale per promuovere la collaborazione tra il settore della raccolta rifiuti e quello del riuso.
Ma qual è l’andamento generale del riutilizzo in Italia? L’approccio degli italiani verso l’acquisto dell’usato negli ultimi 5 anni è cambiato profondamente. Il 48% degli italiani ha fatto ricorso all’usato e il 41% dichiara di voler incrementare i suoi acquisti in questo settore. Sociologi ed esperti di mercato dicono che consuma l’usato: 1) chi cerca il risparmio; 2) chi è più colto; 3) i giovani più che gli anziani. Nell’espansione dell’usato la crisi conta, ma si tratta anche di un’evoluzione degli stili di consumo che è indipendente dalla congiuntura economica e dalla riduzione del potere d’acquisto delle famiglie. Il ricorso all’usato è dunque destinato ad affermarsi e crescere anche quando si entrerà in un’eventuale fase di ripresa economica.
Secondo le stime della Rete Nazionale Operatori dell’Usato il comparto dell’usato occupa in Italia oltre 80.000 persone, ma una mappatura puntuale risulta assai problematica a causa dell’informalità nella quale sono costrette circa il 70% delle attività. Il settore è in attesa di una riforma complessiva che, in virtù della crescente pressione della categoria verso le istituzioni, comincia a muovere i primi passi formali. In termini di vendite, va bene l’usato che ha funzione d’uso quotidiana e va molto male l’usato superfluo (epoca, collezionismo, ecc…). Soffrono quindi la crisi i rivenditori di usato superfluo, mentre vanno bene quelli di usato generico. I settori della riparazione di abbigliamento ed elettrodomestici sono in “ricrescita”, dopo anni in cui sembravano procedere rapidamente verso l’estinzione. Gli operatori informali, specie di etnia rom, sono al centro di iniziative di integrazione a Napoli, Reggio Calabria, Roma e Torino, ma sono anche oggetto, alternativamente, di persecuzione giudiziaria e persecuzione razzista. A Roma la chiusura di mercatini autorizzati sta generando una rinnovata pressione delle comunità straniere sui mercati autorizzati, e in particolare su quello di Porta Portese con pesanti ripercussioni per gli operatori dell’usato storici del mercato (che stentano anch’essi a veder formalizzata la loro pluridecennale attività di riutilizzatori). Torino, dopo essersi affermata negli scorsi anni come best practice in questo ambito con l’istituzione delle “Aree di Libero Scambio non professionale dell’usato”, ha davanti la sfida di riconfermarsi come terreno d’avanguardia di sperimentazione di fronte alla crescente richiesta di spazi autorizzati avanzata da ampie fasce della popolazione in stato di bisogno. A Roma e Milano operai in cassaintegrazione o espulsi dal mercato del lavoro, insieme a precari e studenti, hanno messo in moto processi di riconversione partecipata delle fabbriche fallite che hanno al centro modelli di riutilizzo su scala, riciclo e upcycling.
Non c’è dubbio: il variegato mondo del riutilizzo è l’emblema dell’Italia che reagisce alla recessione reinventandosi dal basso. Intraprendendo attività economica reale, creando socialità territoriale e sviluppando azione ambientale.